lunedì 7 marzo 2011

8 marzo 2011

Oggi, alla vigilia della giornata dedicata “alle donne”, come ogni anno mi raccolgo per fare un piccolo bilancio del mio, del nostro “essere donna” in questa Società. Lo faccio come per tutte le altre feste importanti per trovarmi preparata a dare a questo giorno il giusto valore.

Anche se le origini della Giornata dedicata alle donne sono abbastanza discusse e confuse, la si può identificare con una battaglia portata avanti dalle donne comuniste nel lontano 1907, a Stoccarda, per il riconoscimento del diritto di voto esteso alle donne e caldeggiato da Rosa Luxemburg. Tuttavia l’iconografia vuole farla risalire alle tragiche conseguenze di uno sciopero delle camiciaie americane che si tenne nel 1911. Probabilmente chiuse dal proprietario, 146 donne morirono nell’incendio di una fabbrica.

Per me l’8 marzo, qualsiasi origine voglia dargli, non è un giorno di festa e non riesco a capire come possa essere vissuto in questo senso.

Mi ritornano in mente le manifestazioni dell’8 marzo di tanti anni fa, quando ancora ci si ricordava che il diritto al voto, in Italia, ci era stato concesso solo nel 1946
e ci si ricordava anche delle camiciaie morte nell’incendio a New York,
e
si gridava la rabbia di essere discriminate in quanto donne:
l’obbligo sociale di considerarsi complementari ad un uomo,
fosse esso il padre, il fratello, il marito.

Quante amiche ho avuto, cui la morte del padre ha sottratto un futuro, quando erano magari già all’Università. Laddove non c’erano risorse sufficienti a mantenere il decoro famigliare, per restringere i consumi, si ritirava dagli studi la ragazza. Si sarebbe potuto rinunciare alle vacanze, alla macchina, alla fettina, no, era compito della ragazza rinunciare al suo futuro, tanto lei bene o male si sarebbe sposata e avrebbe avuto altro da fare che esercitare una professione.

Mi ritorna in mente quando si prestavano le case al CISA, perché facesse abortire le donne, seguite da medici e non da mammane.
Sì, perché la sessualità femminile era disconosciuta anche all’interno della famiglia, se una donna rimaneva incinta era colpa sua, era lei che doveva rischiare la pelle se il marito non se la sentiva di accogliere una nuova bocca da sfamare.

Se c’erano uomini con problemi di accettazione di sé stessi nei confronti della Società, che si sentivano sminuiti dal fatto che la propria moglie lavorasse, la donna doveva rimanere a casa ed arrabattarsi per far sembrare che quanto guadagnava il marito bastasse a mantenere la famiglia con decoro.

Mi domando quante cose siano cambiate.

Ora le donne possono contare sull’assistenza ospedaliera per abortire, ma le ragioni per cui abortiscono non sono cambiate, continua a non esserci una educazione sessuale di ambo i sessi nell’età formativa, per cui giovani e meno giovani uomini continuano a prevaricare le loro compagne e a colpevolizzarle facendo pagare solo a loro lo scotto dell’imprevidenza, della non assunzione di responsabilità.

Ultimamente ho passato una mattina in un ospedale milanese, proprio nella giornata nella quale si praticavano gli aborti. Le donne erano quasi tutte poco più che bambine, immigrate, emarginate, si stringevano come tanti cuccioli, totalmente impreparate a ciò che le aspettava, timorose di ciò che non conoscevano e le uniche persone “pietose” nei loro riguardi, anche se sbrigative, erano le infermiere.

Ho visto molte ragazze lontane dalle famiglie, vivere da sole, per poter studiare, lavorare per mantenersi, precarie in tutto: lavoro, casa, amori.
Le ho viste lottare per mantenere il buon umore ed il diritto di essere considerate esseri umani con pari dignità
ed ho visto i loro coetanei continuare a vivere coi genitori perché, secondo loro non possono permettersi altrimenti con un lavoro precario. Però li ho visti non mancare una sera alla settimana al rito della birra con gli amici, alla partita al calcetto, al concerto dei loro cantanti preferiti, al week end all’estero col volo low cost, all’Apple. Lavorano anche loro, per carità, ma l’impegno non è lo stesso, spesso per le famiglie lui è il poverino che è ingiusto chiamare “bamboccione”,
la sorella, la figlia o la moglie continuano ad essere quelle “originali”, “ribelli”, che non si accontentano!

Ho visto nelle ditte, negli uffici, nicchiare di fronte all’assunzione definitiva di donne in età fertile, promuovere un uomo invece di una donna a pari merito o pari rischio!

Molte cose sembrano essere arrivate a maturazione, ma in realtà il senso si è perso per strada, sono cambiate solo certe forme, ma non la sostanza.

In questa vigilia sono un po’ triste e penso a quante donne invece di gridare il loro sconcerto, la loro non comprensione di questa disparità,
si riuniranno a mangiare una pizza e si sentiranno emancipate solo dal poterlo fare e magari dal poter andare in una pizzeria che offre uno spogliarello maschile.

Probabilmente nessuna di loro si ricorderà il nome dell’ultima camiciaia della Triangle, identificata solo pochi giorni fa, cent’anni dopo la sua morte:
Maria Giuseppa Lauletti.