mercoledì 27 gennaio 2021





 

Shalom Rita

 

 

 

 

Uscirono dal bosco affaticati. L’ultimo tratto era stato particolarmente difficile, scivolavano sul crocchiante tappeto di foglie morte. La bruma sbrindellata tra i rami, sembrava ingigantire ogni rumore ed i loro respiri affannosi sembravano dilatarsi e permeare il bosco. Ogni tanto si fermavano, il fiato sospeso, per controllare che nessuno li seguisse. Poi riprendevano l’erta ed il faticoso arrancare. Erano due uomini, una donna e due bimbi. Gli uomini portavano i bimbi legati sulla schiena ed avevano una valigia per mano, la donna stringeva al petto una borsa. Il cappellino di feltro, battendo ai rami, ogni tanto le si metteva di traverso e la donna, puntigliosamente, si fermava appoggiava per terra la borsa e se lo sistemava.

Uscirono dal bosco su di un coltivo, al di là, tra alberi di fico ed un meleto, si intravedeva nella semi oscurità una casa.

Qualcosa si mosse. Si bloccarono atterriti. Spuntò un uomo, che fece col capo un cenno in direzione della casa e avanzò verso di loro seguito da un giovanottello e, alla spicciolata, da tre ragazze. Vennero loro incontro guardinghi.

Prima ad allungare le braccia per prendere uno dei bimbi fu una ragazzona, con una grossa treccia dorata girata intorno al capo. Poi l’uomo prese l’altro bimbo. Il giovanotto dopo aver loro rivolto un mezzo sorriso li oltrepassò e proseguì nel bosco.

Quando entrarono in casa una donna, che era accanto al fuoco si girò, vide i bambini ed in silenzio stese una coperta sulla cassa della legna accanto al camino, poi aiutò ad adagiarveli e, con gesti pratici ed amorevoli, li ricoprì coi lembi della coperta.

Nessuno parlò. Non avrebbero saputo che e come dirsi di tutta quella paura, della fatica, dell’amore che li aveva raggrumati da due punti tanto distanti dell’Europa.

Loro erano scesi lungo quel filo di speranza e di solidarietà che guidava i perseguitati verso la terra promessa. E qui avevano trovato rifugio da chi i patimenti della povertà li provava da sempre. Una povertà che nulla toglieva alla dignità, alla capacità di donare, di condividere, di amare.

 

 

Qualche anno prima il marito della donna col cappellino di feltro, il Professor Radete, era stato ospite di un collega nel perugino, per analizzare degli studi compiuti in parallelo nelle loro rispettive Università.

Tornando a casa, aveva raccontato alla famiglia delle dolci vallate umbre, dei boschi, della gente schiva, ma cortese e le lunghe chiacchierate invernali, quando la famiglia si riuniva dopo cena, erano state inframmezzate dai suoi entusiastici racconti sull’Italia.

All’inizio del conflitto, il Professore fu prelevato da sconosciuti in clinica e di lui, né la moglie, né i fratelli riuscirono più a sapere niente.

Poi fu la volta della cognata in visita ai due figli in un collegio tedesco, anche loro sparirono senza lasciare traccia. A quel punto la famiglia si radunò e fu deciso di tentare di raggiungere la Palestina per vie diverse, in gruppetti ed in tempi diversi.

Partirono prima i vecchi con la famiglia di una figlia.

Ruth, la signora col cappellino, decise di rimanere coi due figli ad attendere il marito, nel caso fosse tornato. Rimase anche Gore, il cognato più giovane e scapolo, che si sentiva in dovere di aiutarla. E poi, dopo aver accompagnato a La Spezia in Italia, gli suoceri e gli altri congiunti tornò anche Samuel.

Che con il violino in spalla e le foto della moglie e dei due figli in tasca, faceva avanti e indietro dalla Germania, nella speranza che i suoi fossero presso qualche conoscente.

Quando la situazione era precipitata, anche il loro gruppo aveva deciso di partire verso il sud, volevano cercare di scendere a trovare un imbarco in Grecia, ma qualcuno nel Montenegro riuscì a fargli capire che Albania e Grecia erano anche più pericolose dell’Italia.

Così, trovato un imbarco clandestino, giunsero a Fano.

Si diceva che gli alleati stessero per liberare Ancona, così si ricordarono dei racconti del Professore e decisero di raggiungere Perugia ed attendere lì gli alleati prima di avventurarsi per La Spezia, dove stavano approntando la seconda nave comprata dalla comunità ebraica.

Ritrovarono la villa dove era stato ospitato il professore, ma era chiusa e tutto sembrava abbandonato. Nottetempo entrarono in un padiglione estivo. Una giostra settecentesca, giaceva inclinata su di un lato, i cavalli di legno, dai decori sbreccati, erano sparsi qua e là. Gli uomini si sistemarono a dormire in un grosso cigno, la donna ed i bimbi in un cocchio dalle marocchinerie consunte e strappate. E finalmente tutti sognarono.

Non stranamente, tutti ebbero come filo conduttore, la voce del professore che raccontava loro della villa fuori dal vecchio borgo, con il parco, i padiglioni, les jeux d’eau ai cancelli ….

Si svegliarono con la sensazione che qualcuno li stesse spiando. In effetti il fattore, che abitava non lontano dalla villa, li aveva scorti la sera prima. Non c’erano dubbi, era gente che stava scappando, da chi e da cosa non avrebbe saputo dire. Ma erano tempi bui, c’era tanta gente che scappava, non conveniva fare domande.

Sulle prime aveva pensato di allontanarli subito, poi aveva deciso di parlarne a sua moglie. Avevano tentennato tutta la notte, non si parlava di ospitarli e cercare di nasconderli, ma tanto meno si poteva fare finta di niente, la tenuta era troppo scoperta ed appetibile, ed essendo poi proprietà di una famiglia ebrea, troppe persone la controllavano.

Loro non potevano mettere a repentaglio la loro di famiglia. Però: “ anche ‘sti poveracci hanno con sé due creature”, disse la moglie. Così avevano risolto di sfidare la sorte e dargli il tempo di  riposare e rimettersi in marcia nuovamente col buio verso un rifugio più sicuro.

Il fattore aveva avvolto in uno straccio una forma di pane e mezza caciotta ed ora, con il fagotto sotto il braccio, li osservava dalla soglia del padiglione. Come si mossero, si avvicinò loro ed incominciò a spiegargli che non potevano rimanere lì, che era troppo pericoloso.  I cinque lo guardavano, sembravano non capire, ma i loro sguardi invece di essere spaventati, sembravano fiduciosi, la donna trasse dalla borsa una foto e mostrandogliela indicò l’uomo che era ritratto tra lei ed i bambini. Il fattore guardò distrattamente, poi più attentamente: lui quell’uomo lo aveva già visto, già era il professore ungherese che era stato ospite del padrone … gesummaria, questi erano ebrei! Dovevano assolutamente andarsene, provava a ripetere, ma il risultato non cambiava. Allora fece loro cenno di mangiare, di fare silenzio e di non uscire. Appoggiò delle pagliarelle ai vetri del padiglione ed, uscendo, delle assi alla porta.

Prese la bicicletta e si recò al borgo. Nei pressi della torre abitava una studentessa che aveva aiutato il suo padrone ed il professore ungherese a riordinare gli appunti. Era una ragazza serena, cortese.

Il giorno che la famiglia del padrone era partita per l’America, lei era venuta a salutarli, abbracciava la signora ed i bambini, trattenendo a stento il pianto. Per questo il fattore pensava che di lei ci si poteva fidare, non l’avrebbe tradito. Così, fingendo di portarle della verdura, la pregò di recarsi al padiglione e di spiegare a quegli stranieri, lei che conosceva le lingue, che non era possibile che rimanessero lì. Le disse che probabilmente erano famigliari del professore ungherese.

La sera, quando raggiunse il padiglione,  la ragazza aveva già preso accordi con degli universitari partigiani che avrebbero aspettato il gruppetto fuori dal borgo e poi li avrebbero accompagnati sui monti fino  alla brigata San Faustino.

Erano proprio i famigliari del professore, li aveva visti in foto. Si presentò e anche loro la riconobbero nelle parole del professore. Spiegò loro le ragioni del fattore e cosa aveva organizzato: di raggiungere Perugia non se ne parlava, stava partendo una colonna di fascisti scortata da repubblichini, in Toscana scorazzavano tedeschi in ritirata e titini fuggiti da un campo di concentramento. C’era troppa sorveglianza e tensione in giro. Più saggio risalire un po’ l’Appennino verso Bocca Trabaria e stare calmi fino all’arrivo degli inglesi.

Attese con loro il calare delle tenebre e poi li accompagnò all’incontro con i due ragazzi, i quali li caricarono su un furgone e facendo la strada a fari spenti li portarono fino ad un costone sopra Montone, dove terminava la strada ed  iniziavano i boschi fitti delle valli del Carpina. La Brigata era impegnata altrove.

Attesero un po’, stava quasi per albeggiare quando furono raggiunti da quattro uomini armati, che dopo aver parlottato con i ragazzi, fecero loro cenno di seguirli.

Camminarono fino a che non fu proprio chiaro, poi gli uomini fecero loro cenno di distendersi sulle foglie secche e di mettersi vicini, vicini. Li coprirono con delle frasche e si allontanarono.

Loro non avevano neanche voglia di guardarsi negli occhi, si aspettavano un colpo in testa da un momento all’altro. Solo Gore incominciò sotto voce a raccontare una favola ai bimbi. La sua voce sciolse piano piano i nodi di paura e la stanchezza fece il resto, i bimbi si addormentarono. Gli adulti rimasero con le orecchie tese, fino a che non udirono lo scarrocciare di un carro e l’ansimare dei buoi che arrancavano non lontano da lì. Poi il frusciare delle foglie che si avvicinava e qualcuno tolse le frasche, erano gli stessi uomini di prima, che fecero loro cenno di seguirli.

Poco oltre un dosso, il bosco era attraversato da una carrareccia e lì li aspettava un carro pieno di fascine. Quando lo raggiunsero l’uomo che lo guidava scese e velocemente insieme agli altri spostò le fascine, li aiutò a sdraiarsi sul fondo del carrettone e li ricoprì. Un veloce saluto ed il carro ripartì. Viaggiarono per tutto il giorno, verso le cinque, col buio che calava, dopo aver attraversato infiniti boschi e tagliato varie carrarecce il carro si fermò, l’uomo spostò le fascine e fece loro cenno di scendere. Scesero tutti ammaccati e doloranti. Erano su di un’aia circondata per tre lati da una casa bassa. Porticine davano su antri scuri, da cui proveniva la puzza di animali. Davanti all’unica porta in cima a tre scalini c’erano una coppia con dei bambini che sbirciavano da dietro i genitori. La donna scese andò dinanzi alla spaurita signora col cappello e le disse qualcosa che lei non capì, allora indicò gli uomini che si erano messi in fila contro un muro a fare pipì e le fece cenno di seguirla. Entrarono in una porcilaia e la donna indicò la canalina di scolo, poi uscì. La signora si mise la borsa sotto il braccio, disse al bimbo più grande di farla lì ed aiutò il piccolino. Poi si guardò intorno e dopo aver messo la borsa in braccio al bimbo grande ed aver ordinato loro di mettersi sulla porta a faccia in fuori, senza spostarsi, finalmente la fece anche lei.

Quando uscì gli uomini stavano fumando una sigaretta, Samuel fece cenno di rollargliene una, ma lei, visto lo sguardo della contadina, disse di no e seguì la contadina dentro casa. Quasi dentro al camino era seduta una donna vecchia ed incartapecorita. La contadina prese da una credenza delle fondine le portò al camino e traendo con un ramaiolo la zuppa dal paiolo incominciò a riempirle, le appoggiava davanti agli uomini che entrati si erano seduti sulle panche intorno al tavolo. Poi servì la vecchia ed i bambini, tese una scodella a lei ed una la tenne per sé. I bimbi mangiarono seduti sulle ginocchia degli zii e le due donne in piedi accanto al fuoco. Appena finito di mangiare la contadina passò i piatti con uno straccio. Poi  portò Ruth insieme ai bimbi tutti in una grande camera e le indicò un letto singolo. Sistemò i suoi figli nell’altro lettone e si infilò nel letto anche lei. Quasi nessuno si era spogliato. La signora tolse ai figli i cappotti ed i calzoncini, lei si tolse il cappotto, la gonna e, stringendosi al petto il figlio piccolo, si infilò nel letto testa piedi come la contadina con i suoi figli. Sentiva gli uomini di là cercare di parlare, poi sempre più rare le parole cessarono del tutto e il contadino entrò in camera e s’infilò nel letto di fianco alla moglie.

La mattina i vetri erano ghiacciati, si alzarono tutti infreddoliti ed andarono in cucina. I cognati che avevano dormito sulle panche avevano già riattizzato il fuoco e la vecchina aveva messo nel paiolo del latte di pecora. Le donne ed i bimbi bevvero un po’ di latte e mangiarono un pane basso comparso misteriosamente da sotto la cenere. Gli uomini intinsero il pane in mezzo bicchiere di vino cupo. Poi ripartirono tutti a piedi dietro il contadino. Dopo un costone ed un paio d’ore di cammino il contadino li arrestò, tese l’orecchio, cambiò leggermente direzione e si diresse verso un rumore sommesso di fuoco e di voci. Vicino ad un torrente, in una piccolissima radura, c’erano una capanna, un grosso cumulo di terra che fumava e due uomini che parlavano mentre attizzavano un focherello.

I carbonari diedero il benvenuto al contadino e squadrarono il gruppetto che si portava appresso. Quando videro i due bambini, tagliarono da un pezzo di carne secca triangolare due fette di lardo e lo misero su di una gratella al fuoco, tirarono fuori da una sacca due pezzetti di quel pane basso lo tagliarono a metà e ci infilarono il lardo croccante. Bastò un cenno della madre, perché i bimbi li prendessero e addentassero con gusto. La madre e gli uomini mangiarono il solito pezzetto di pane intinto in due dita di vino. Fumarono una sigaretta e  ripartirono.

Uscirono dal bosco e percorsero una lunga valle alla fine della quale c’erano un mulino e due case. Quando arrivarono in vista delle case uscirono diversi uomini armati, che, vedendoli, chiamarono qualcuno all’interno della casa, che uscì ed andò loro incontro. Mano a mano che si avvicinava ebbero l’impressione che fosse diverso dagli altri uomini tutti neri con gli occhi scuri e non molto alti. Questo era biondo con gli occhi chiari  ed era un bel po’ più alto degli altri. Come fu loro davanti si presentò: apparteneva ad un gruppo di paracadutisti inglesi scesi in una valle poco più in là per preparare l’arrivo del grosso delle truppe. Spiegò loro che erano stati portati lì, perché in quel mulino si trovava fino al giorno prima una profuga ungherese, che parlava bene l’italiano e che avrebbe potuto aiutarli. Purtroppo il giorno prima, mentre loro erano già in viaggio, era stata arrestata a Gubbio. Quelli della brigata erano andati a prendere lui, perché spiegasse loro la situazione e li spostasse altrove, visto che lì potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

Disse loro che quella era una banda mista di partigiani italiani e slavi e che, dopo una breve sosta, lui ed uno del posto li avrebbero accompagnati in cima al monte dove, quasi certamente nessuno li avrebbe trovati. Dovevano rimanere lì per qualche giorno, il tempo per lui di cercare un contatto per Roma.

Loro si guardarono spaventati, erano stanchi, non volevano andare a Roma, a La Spezia la comunità ebraica stava allestendo una nave per la Palestina, gli dissero, comunque si rassegnarono a seguirlo. I bambini erano distrutti, così con dei canapi e degli stracci i due uomini si legarono nuovamente i nipoti sulle schiena e proseguirono il cammino.

Fecero, preceduti dall’ufficiale inglese e seguiti da un partigiano umbro armato di moschetto, la salita più ripida della loro vita. Per fortuna era quasi tutta in mezzo alla macchia, al coperto, ciononostante ogni tanto si fermavano per tendere l’orecchio. Gli unici rumori che captarono erano i passi leggeri e brevi di qualche selvatico.

Il cielo incominciava a scurirsi, si era alzata una specie di nebbiolina che li bagnava e rendeva tutto scivoloso. All’altezza di un cimitero di campagna l’ufficiale inglese li aveva salutati, da lì alla loro meta finale mancava poco e a quell’ora era difficile che i tedeschi girassero da quelle parti. Lui invece doveva camminare ancora due ore in un’altra direzione e doveva passare un posto strettamente sorvegliato dai tedeschi, per cui era meglio si separassero. Raccomandò loro di non muoversi da quella casa fino a che non fossero tornati lui o la signora ungherese a prenderli.

Il partigiano col moschetto si mise in testa al gruppo e proseguì ancora per tre kilometri, poi all’imbocco di un sentiero si fermò e fece loro cenno di proseguire. S’incamminarono mentre lui, dopo averli osservati imboccare il sentiero, prendeva a scendere tagliando i pascoli per un altro verso. S’impensierirono non poco, visto che a detta dell’inglese avrebbe dovuto accompagnarli fino alla nuova destinazione.

Ormai la sera era calata quasi del tutto, quando spuntarono sulla radura e l’uomo venne loro incontro.

La vista dei giovani che lo seguivano, soprattutto delle ragazze li rassicurò ed, entrando, le cure amorevoli dalla donna grande li confortarono.

<Rita> disse la donna < sono Rita, sinte>

La casa era ancora più spoglia della prima e lì, accanto al focolare, c’era un vecchio che armeggiava con pezzi di legno, sgorbia e pezzi di pelle di pecora. Sì girò e fece loro un sorriso ammiccante alzando timido un pugno chiuso.

Nel paiolo bolliva una minestra di erbe di campo e patate. Rita, indicò alla donna e ai bambini un grosso sacco di iuta. Quando vi si sedettero, sprofondarono in un crocchiare di foglie di mais, che divertì molto i bimbi.

Cavandola da sotto la cenere, tirò sul tavolo una grossa ruota di pane impolverato, la prese col grembiale e strofinò via la cenere, poi dopo averla nuovamente battuta sul tavolo la divise a pezzi con le mani. Cominciando dal vecchio ne tirò uno in grembo ad ognuno. Porse loro una grossa ciotola di legno piena di minestra, disse qualcosa che Ruth non capì, ma le fu facile comprendere che c’erano un’unica ciotola ed un unico cucchiaio per lei ed i suoi figli, lo stesso era per la donna e le sue figlie.

Il vecchio, dopo qualche boccone, passò la sua ciotola al figlio e questi al nipote, un’altra ciotola fu data a Gore e Samuel. Mangiarono in silenzio. Nella stanza aleggiava un bel po’ di paura, ma anche un pizzico di ribellione, di fatalismo e di gioia. Così quando il saccone crocchiava, i bimbi ridevano e il vecchio, Rita e Gore sorridevano della loro spensieratezza. Messo il fuoco sotto le braci insieme alla ciotola per il figlio che doveva ancora tornare, Rita e le figlie si coricarono intorno al focolare su altri due sacconi. Il vecchio e gli uomini scesero nella stalla sottostante, avrebbero dormito sul fieno, vicino alle mucche.

La mattina dopo Ruth e Samuel fecero preparare il loro gruppetto speranzosi di proseguire, ma Nello, il ragazzo che era tornato nella notte con le direttive della Brigata, disse che avrebbero dovuto aspettare lì fino a che a La Spezia non fosse stata pronta la nave che doveva portarli in Palestina. Poi i partigiani avrebbero provveduto a fargli passare il territorio umbro e toscano e li avrebbero consegnati ai compagni di Carrara che li avrebbero portati al campo di raccolta per l’imbarco. Samuel sapeva che i soldi per la seconda nave erano già stati raccolti, perché dovevano aspettare ancora tanto tempo, che era successo?

Così … così …. così, come facciamo a rimanere qui per un tempo indefinito? Si domandarono Ruth, Samuel e Gore. Guardavano intorno: il vecchio, Rita, le sue tre ragazze, il marito, il ragazzo, sembravano fare loro stessi una gran fatica a sopravvivere. La fatica del ragazzo di spiegare agli stranieri gli ordini aveva permesso anche ai suoi di capire a cosa andavano incontro e anche loro ora guardavano il gruppo di stranieri con sgomento.

Fu il vecchio, per cui il pugno aveva un valore, abbastanza nuovo e nello stesso tempo antico, che allungò una mano, aprì bene le dita, e le richiuse a pugno mettendolo in mostra.

Si rivolse a Rita e disse: “non possono andare per boschi così,  farò loro degli zoccoli.” “sì pa’, ma..” rispose abbassando il capo e cercando di non guardarli “so quasi ‘gnudi e per il mangiare..?” “mmm, proprio tu lo dici, c’è sempre un rimedio per tutto! Voi andate al bosco” ordinò agli uomini.

Samuel e Gore parvero capire e si predisposero a seguire Gostì e Nello. Ruth invece si vide persa, che avrebbe fatto? doveva badare ai bimbi, continuare a farli studiare, riempirgli la pancia e coprirli. La prima e l’ultima cosa le sembravano le più difficili.

Nella loro fuga, avevano adagio, adagio eliminato tutti i libri, avevano solo un simulacro dei rotoli delle Torah, perché dov’è la Torah, là è casa. Qui non sembrava esserci la possibilità di trovare neanche della carta ed una semplice matita. E gli abiti? C’erano quasi cresciuti dentro in questi ultimi mesi di fuga e non erano adatti alla montagna. Lei poi, aveva solo quello che aveva addosso. Era scappata con le scarpe con la zeppa e le calze di seta arrotolate alle caviglie. Il cappottino corto avvitato ed un cappellino. La borsetta sotto il braccio e nella borsa di ritagli di cuoio, che usava per la spesa aveva infilato i ricambi per i bimbi ed erano usciti come al solito: forse delle compere, forse delle visite …  nella borsetta, oltre ai documenti solo un fazzoletto. I cognati, che si erano mossi la notte prima, avevano infilato nelle valige due coperte, un telo cerato e dei viveri.

Tutto lì, la Palestina era calda ed erano attesi, i Balcani li avrebbero attraversati durante l’estate e a La Spezia tutto sarebbe tornato alla normalità. Invece eccoli, al sopraggiungere dell’inverno, in montagna con la prospettiva di rimanerci chissà quanto!

Chinò il capo e nascose il volto tra le mani. “Dai, non serve disperarsi, tra il babbo ed il mio uomo, troveranno il modo …” le disse Rita e uscì. La ragazza con la treccia le prese il bimbo piccolo e messoselo a cavallo di un’anca, usci anche lei. Rita prese per mano il bimbo più grande e uscì anche lei.

Una fila di vecchie pietre conficcate ritte ed allineate nel terreno delimitava un orto, le due donne stavano lavorando lì. Lei proseguì oltre un campo e si addentrò in un bosco di castagni. Incominciò a raccogliere ricci e ad ammucchiarli ai piedi di una pianta. Il bimbo la imitò e così tra la raccolta e l’osservazione delle erbe, si dimenticarono entrambi l’angoscia di poco prima e si godettero la bella giornata autunnale.

Ad un certo punto la fame si fece sentire, Ruth cercò bacche e foglie commestibili e riuscì a fermare un po’ lo stomaco del figlio. All’altro, sperò, ci avrebbero pensato le donne nell’orto.

Quando il sole incominciò a calare rientrarono tutti in casa, il vecchio aveva preparato degli zoccoli per Ruth, erano caldi e stabili. Ruth poté dire addio ai sandali con le zeppe di sughero tutte rotte. Samuel era stato bravissimo nel cercare di tenerglieli insieme, ma il sughero si sfaceva e lei continuava a prendere storte. Passarono così alcuni giorni, che sembrarono loro di riposo, anche se i sensi erano sempre all’erta, la fame tanta, il freddo avanzava, mentre la possibilità di imbarcarsi a La Spezia sembrava sempre più lontana.

Una sera, si sentì un richiamo da fuori e fu aperta la porta, entrò ratto un uomo con un involto: “son due coperte, per farne dei cappotti, l’inglese a detto che so’ mezzi ‘gnudi.” Disse porgendolo a Rita.

“Che si dice giù?” chiese il vecchio.

“che hanno visto la Marion al San Marco col Federale ed un tedesco.”

“Ma chi?”

“dei mulari di Pian di Balbano, che l’hanno detto a uno che scendeva a Morena”.

“e ora?”

“si starà a vedere”.

Gli uomini rimasero tutti zitti. Il sospetto del tradimento metteva più paura della certezza di uno scontro.

Ruth, Samuel e Gore, pur senza capire, avevano captato l’allarme, la paura. In cuor loro speravano di veder comparire l’inglese per portarli via, verso La Spezia.

Invece la mattina presto li svegliò un rapido scalpiccio di scarponi, il vecchio uscì e parlottò velocemente con uno del gruppetto di uomini armati, che altrettanto velocemente proseguirono.

Passarono due ore, il vecchio aveva chinato il capo su un pezzo di legno che stava lavorando per farne degli zoccoli e rifiutava ostinatamente di parlare con Rita ed il marito, che cercavano di sapere cosa avesse detto quello del gruppo armato. Samuel e Gore fecero per uscire a fare legna, ma il vecchio disse a Rita di fermarli. Rimasero tutti intorno al fuoco, fermi e muti, solo Rita impastava del pane sulla madia.

Una raffica di mitra squarciò l’aria, ed il respiro rimase sospeso nella stanza. I bimbi si strinsero impauriti a Ruth e gli adulti si scambiarono occhiate preoccupate.

Il vecchio trasse un lungo sospiro e  disse:

“qualche giorno fa i tedeschi hanno preso e fucilato l’inglese”, non osava guardare gli altri, poi soggiunse “oggi i partigiani della Montebello sono andati al Molinaccio a prendere la Marion e a farla finita” scosse il capo e riprese il suo lavoro al legno.

Passarono ancora due ore nelle quali erano tanti gli interrogativi che si ponevano le persone intorno al fuoco, quando si aprì la porta e due uomini armati dissero agli ungheresi di prepararsi che li avrebbero portati via loro.

Li avrebbero accompagnati fino al contatto con una brigata più a Nord, passando per i monti sarebbero arrivati quasi a Cesena, e poi avrebbero cercato di farli arrivare a Parma e da lì per la Cisa, a La Spezia.

Rita cercò di capire per quante mani sarebbero passati, quante probabilità avevano di riuscire a raggiungere la loro nave, voleva capire per cercare di spiegare a Ruth, Samuel e Gore, per tranquillizzarli. Loro non parlavano italiano, tanto meno quello stretto dialetto dell’Appennino umbro-marchigiano, avevano paura, Ruth tremava, i bimbi erano tutt’occhi.

Samuel fu il primo a realizzare che dovevano seguire quegli uomini e cercò con parole calme, ma decise di spiegare ai suoi. Misero le loro poche cose nelle valigie, coprirono i bimbi. I partigiani li sollecitavano a sbrigarsi. Mentre Gore legava il piccolo sulle spalle di Samuel, Rita che aveva preparato un piccolo involto con della polenta fredda e delle fette di lardo, abbracciò stretta, stretta Ruth, e muovendo un dito sul palmo della mano, accennò all’atto di scrivere, puntò un dito sul petto di Ruth e poi sul suo. I partigiani stavano già uscendo seguiti da Samuel e da Gore, quando finalmente Rita sciolse Ruth dall’abbraccio.

Quando tornò il silenzio e gli uomini uscirono, Rita si rivolse al padre:

“oh ba’, ce la faranno?”

Il vecchio scosse la testa dubbioso.

 

Passarono tanti anni prima che il postino si ritrovasse per le mani quella cartolina. La girò e rigirò, veniva da Gerusalemme, era indirizzata a Rita di Sant’Angelo e portava due sole parole: shalom Rita.

Che avrà voluto dire chi l’aveva scritta e poi perché scrivere a gente che se n’era andata con la guerra, tutti fucilati per rappresaglia.

L’avrebbe data al maestro di Col d’Antico, la prima volta che l’avesse visto in paese. Il maestro l’avrebbe appesa in classe ed i bimbi di Col d’Antico avrebbero visto com’era Gerusalemme.

 

 27 gennaio 2021

domenica 22 maggio 2016

diffidate gente dell'"IO"




Diffidate gente di chi inizia tutti i suoi discorsi con “Io”,
anche se si dichiarano amici non lo sono e non lo saranno mai veramente.

Sarà una falsa modestia cattolica, ma mi è stato insegnato che non era educato iniziare i discorsi con “io”.
Bene, ho sempre applicato questa regola e, nel tempo, mi sono accorta che costruiva pace, chi non l’applicava non aveva solo degli opinabili problemi di educazione, ma aveva dei seri problemi di rapporto sociale.
Le persone che iniziano tutti i loro discorsi con “io”

non ascoltano gli altri, si “contrappongono” sempre, si misurano sempre con agli altri in base a giudizi preconcetti, nei quali danno sempre a sé stessi maggior valore che agli altri.

Il continuare a confrontarsi è foriero di guerre,

sì, perché le guerre nascono da piccole cose agite da piccoli uomini.

I piccoli uomini hanno sempre bisogno di schiacciare gli altri per sentirsi qualcuno.
Li schiacciano con la forza di un successo effimero, conteggiato sulla quantità di soldi posseduti o fatti transitare nelle loro mani. A loro non importa quale valore morale o sociale gli altri possano avere, quanto amore siano stati capaci di dare o suscitare, quanto ne potranno ancora dare. A loro non importa di tutti coloro che hanno un animo o una mente semplice, poca o tanta cultura, 
se non hanno saputo trasformare tutto ciò in soldoni:

sono poveri, quindi non valgono niente.

I poveri si possono umiliare in mille modi: girando la testa da un’altra parte, anche quando il gesto di dare una monetina non può scalfire la ricchezza acquisita. 
Si possono umiliare sminuendone sempre le aspirazioni, i sogni, le idee, le capacità. 
Si può dare ad uno dell’incapace senza neanche avere il coraggio di farlo direttamente, basta fare gli esempi di “altri” e contrapporli alla propria “saggezza”. 
E se le persone si ribellano all’ovvietà dell’offesa, allora si aggiunge anche un insulto alla loro intelligenza, rinnegando l’intenzione di offendere.

I maramaldi dell’io spesso invocano a loro sostegno un Dio,
ma altrettanto spesso si dimenticano di quelle regole che esistono in tutte le religioni
e che, in quella di più largo uso in Italia, si chiamano “di carità”.

Sovente, pur conoscendo il significato vero di parole come:
empatia, partecipazione, amicizia, condivisione di momenti piacevoli e spiacevoli, di sogni, di speranze, di progetti,
non riescono a viverle.


Diffidate di chi incomincia tutti i suoi discorsi con “io”,

sono persone che costruiscono differenze, diffidenze, giudizi, insomma partono dal basso, da cose che sembrano di poco conto, ma alla fine creano guerra e distruzione .

mercoledì 10 dicembre 2014

Non sono clandestina , non sono straniera comunque la mia famiglia viene da lontano nel mondo.




Parte della mia famiglia è partita da un lontano paese della Scozia.
  
Come mercanti avevano la curiosità di provare i mercati nel Nuovo Mondo, allora appena scoperto. Hanno assistito alla creazione di un Impero, ne hanno fatto parte e come suoi rappresentanti sono tornati nella vecchia Europa, in Africa ed in Asia.

Ora i loro discendenti, sono presenti nelle due Americhe, in Europa, in Asia.

Molti di noi si conoscono, si amano, pur essendo tutti profondamente differenti, 
improntati dalla cultura e dall’educazione del Paese nel quale sono cresciuti.


Mi riesce molto difficile capire confini, barriere, distinguo come “noi” e “loro”. 
Sono cresciuta in una società che aveva appena abbandonato il “Voi” come forma di rispetto, per cui alle persone più anziane di me do ancora del “Lei”, ma a tutti gli altri do del “tu” e 
a qualunque persona io incontri 
sull’ascensore condominiale, per strada o su un sentiero di montagna 
sorrido, do la mano o un abbraccio e anche se,
 razionalmente non credo più in un Dio definito, dentro di me sgorga silente un

 “Dio ti benedica!” 


Nella giornata commemorativa dell'istituzione della prima Carta dei Diritti dell'Uomo

venerdì 17 ottobre 2014

EBOLA

Cari avaaziani,



L’Ebola presto potrebbe minacciarci tutti, e quello di cui c’è più bisogno per combatterlo sono i volontari. Se anche solo 120 dottori nella nostra comunità si offriranno volontari, *raddoppieremo* le forze in Sierra Leone. Ma servono anche altre figure, con diverse qualifiche. Questo è un appello a mettersi al servizio dell’umanità nel modo più profondo possibile, ad accettare un pericolo per aiutare il prossimo.Clicca per saperne di più, e per ringraziare chi sta decidendo con coraggio di farsi avanti:


Agisci ora
Tre settimane fa in centinaia di migliaia abbiamo deciso di organizzarci fuori da Internet per combattere il cambiamento climatico. Ora dobbiamo fare esattamente lo stesso per fermare l’Ebola.
Il virus sta andando fuori controllo. In Africa Occidentale i casi raddoppiano ogni 2-3 settimane e secondo le ultime stime entro gennaio potremmo arrivare a 1 milione e 400mila persone contagiate. Con queste cifre l’emergenza potrebbe presto diventare mondiale. 
L’Ebola è stato più volte circoscritto a pochi casi. Ma le dimensioni dell’epidemia attuale hanno mandato nel caos i fragili sistemi sanitari della regione. In Liberia c’è meno di 1 dottore ogni 100mila abitanti. I governi stanno mandando aiuti, quello che manca è proprio il personale medico necessario a fermare l’epidemia.

Ed è qui che possiamo fare la differenza. 39 milioni di persone ricevono questa email. Il nostro sondaggio di qualche mese fa mostra che il 6%, 2 milioni di noi, sono dottori o infermieri. E, di dottori, ne basterebbero 120 per *raddoppiare* quelli oggi presenti in Sierra Leone. 
Servono anche altri volontari: tecnici di laboratorio, logisti, esperti idrici e trasportatori. Partire volontari significa molto più che dedicare il proprio tempo. Significa rischiare. Sono già morti diversi professionisti sanitari per combattere l'Ebola. Ma se esiste una comunità pronta a prendersi questo rischio per l’intera umanità, beh, quella comunità siamo noi. Io e altri del team di Avaaz siamo pronti a partire insieme a voi verso il fronte della crisi.
Ascoltare il nostro istinto può portare a cose grandiose. Se sei un professionista del settore sanitario o hai altre capacità che possono essere utili, ti chiedo di prenderti un momento, ascoltare quella parte di te di cui sai di poterti fidare, e seguirla.
Clicca qui sotto per offrirti come volontario, leggere i messaggi di chi si è fatto avanti sui motivi della loro scelta, e lasciare il tuo messaggio di ringraziamento e incoraggiamento per tutti loro

https://secure.avaaz.org/it/ebola_volunteers_thank_you_3/?bKZMKfb&v=47539

Candidarsi come volontaria o volontario è solo un primo passo. Dovrai conoscere bene l'inglese o il francese. E ti serviranno, e dovrai fornire, molte più informazioni per capire se sei la persona giusta per una delle posizioni disponibili. Dovrai probabilmente discuterne con la tua famiglia, e anche più tardi potrai fare un passo indietro se lo vorrai. Avaaz sta lavorando con Partners in Health, Save the Children e gli International Medical Corps, tre delle principali organizzazioni al lavoro contro questo virus. Siamo anche in contatto con i governi di Liberia, Sierra Leone e Guinea, e con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 
Esiste un rischio sostanziale, ma ci sono anche metodi sicuri per ridurre questo rischio. L’Ebola si trasmette tramite i fluidi corporei, quindi prestando estrema attenzione al contatto fisico si può minimizzare il contagio. Fino ad ora sono già morti 94 professionisti sanitari in Liberia ma erano quasi tutti lavoratori locali, che purtroppo sono equipaggiati molto peggio dei volontari internazionali. Con le giuste cure, le possibilità di sopravvivere al virus sono superiori al 50%
In molti abbiamo lavori che ci portano a rischiare la vita continuamente: da chi lotta ogni giorno il crimine organizzato, a chi si batte per i diritti degli ultimi, o la sicurezza di noi tutti. Rischiare la vita per gli altri è la risposta più forte che si può dare alla domanda “per cosa vale la pena di vivere?”. Prendersi questo rischio per affrontare l’Ebola, significa affermare che quel qualcosa per cui vale la pena vivere siamo tutti noi, ovunque nel mondo: 

https://secure.avaaz.org/it/ebola_volunteers_thank_you_3/?bKZMKfb&v=47539

Se Ebola andrà ulteriormente fuori controllo, presto potrebbe essere una minaccia per tutti. Il fatto che un sistema sanitario debole in una piccola nazione possa far crescere questo mostro fino a farlo diventare una minaccia per il mondo intero ci fa capire quanto siamo interconnessi. Ma questa connessione va al di là del mero interesse. Siamo, tutti noi, un’unica comunità di esseri umani. Stanno cadendo tutte le bugie che ci hanno diviso sulle nazioni, la religione, la sessualità, e ci stiamo rendendo conto che siamo un solo popolo, una sola tribù. Che una giovane madre e sua figlia in Liberia temono le stesse cose, e amano le stesse cose, di una giovane madre e sua figlia in Brasile, o in Olanda. E da questa consapevolezza nasce un nuovo mondo. Dallo sconforto più buio si accendono le luci più abbaglianti: dagli abissi dell’incubo Ebola, possiamo scoprire un mondo nuovo fatto di un popolo solo, persone unite dall’amore e dalla voglia di lottare, e di sacrificarsi, le une per le altre.  
Con speranza e determinazione,
Ricken, John, Alice, Danny e tutto il team di Avaaz



é bello guardarsi intorno, osservare con gioia e meraviglia, la natura che ci circonda, guardare i nostri cari ridere e gioire e sapere che sarà così per .... sempre.

Riflettere su quanto scritto sopra è ancora più importante, sono 2200 i volontari che hanno risposto all'appello, grazie ai ragazzi di Avaaz e a tutti loro e a tutti gli altri che si stanno adoperando per aiutare i nostri fratelli sofferenti.

martedì 4 marzo 2014

Kakaja Ukraina?


Kiev, 1995

4 marzo 2014 
Quando avevo diciotto anni leggevo  Evtušenko ed ascoltavo dal vivo Voznesenskij. La lingua russa mi piaceva, mi piaceva la sua forza. Mi piacevano i suoi grandi scrittori, i vecchi ed i nuovi poeti con le voci che sapevano di rinnovamento.

Cresciuta in una famiglia conservatrice conoscevo solo i luoghi comuni insinuati dalla propaganda catto-fascista e l’orrore della dittatura sovietica. 

In quegli anni ’60 iniziava il cosiddetto “disgelo” ed io speravo che fosse l’inizio di un cammino che avrebbe portato ad incontrarci. 

Non sapevo che non sarebbe durato e, soprattutto, non potevo prevedere tutta la meraviglia, lo stupore, l’amore che avrei portato negli anni seguenti per l’ideale, prima comunista e poi anarchico.

Poi ho constatato che è stato un fuoco di paglia, che l’anima russa così forte e fiera è condannata a votarsi alla subalternità di un tiranno, piuttosto che di una oligarchia e la sua crescente richiesta di democrazia non è che una tendenza a sottostare ad una plutocrazia.

In queste ore di veglia per lo scadere dell’ultimatum di oggi alle 5, mi sono tornati in mente due poeti degli anni del disgelo, i poety-pesenniki,  gli chansonniers dei  samizdat: Okudžava  e Ginzburg, meglio noto come Galič.
 
Il primo cantava:
                                non credere alla guerra, ragazzo,
                                non crederci, la guerra è triste,
                                è molto triste, ragazzo,
                                la guerra è stretta come le scarpe.

Ed il secondo, riferendosi a un film di quegli anni “Cieli puliti”, considerato il manifesto del socialismo dal volto umano,:
                               ….       non dividere il pane coi farabutti,
                               non cadere bocconi di fronte alla lusinga,
                               e non credere in nessun cielo pulito     ….

E ancor meglio lanciava l’amaro, sarcastico, spietato refrain:

                                                        ... ogni conversione a destra comincia dal piede sinistro.

Amico mio ruteno, che stai in America col corpo e a piazza Maidan col cuore, ricordati della canzone “il treno” 
... in odio al secolo veloce, sonnolenti
viviamo disertando i vivi:
non resistenza della coscienza –
la più comoda delle mattane!
E solo qualche volta sotto il cuore
Una fitta dolorosa e furente:
parte il nostro treno per  Oswięcim!
Il nostro treno parte per Oswięcim!
Oggi e tutti i giorni …


Notte di considerazioni amare, non solo per i russi e gli ucraini, ma anche per noi

  ... ogni conversione a destra comincia dal piede sinistro.

venerdì 14 febbraio 2014

ho danzato da sola con un bilione di donne


14 febbraio 2014

Oggi la melensaggine consumistica è stata soverchiata dalla forza di un ballo corale:
1 bilione di donne ha ballato per protestare.
1 bilione di donne in tutto il mondo si è unito per protestare nel modo più antico.

L’unico modo che i deboli e gli oppressi hanno da sempre usato, anche in cattività, 
per far sopravvivere la speranza, per protestare,
 hanno danzato  unite per ricordare tutti i soprusi loro fatti in quanto donne: 
donne prede di guerra, donne violate per spregio, donne ricattate da una società maschilista, 
donne neglette per fare posto ai fratelli, donne usate come merce per arricchirsi, 
donne punite ed uccise solo perché cercano di essere sé stesse.

Ho ballato con loro, vicino al viburno tino in fiore,  in un ronzio di api felici, 
felici di trovare alla fine dell’inverno una fioritura così abbondante.

Mi è parso un segnale. 
Ho pensato al bilione di donne danzanti come alle api, 
tutte insieme nel cogliere anche un attimo di speranza con gioia,
 tutte determinate a far sopravvivere lo sciame fino a giorni migliori.


Ho danzato da sola con 1 bilione di donne.


domenica 1 dicembre 2013

con todo my amor para no olvidar



Per non dimenticare

Lui camminava davanti.
Lei non avrebbe voluto guardarlo così fisso, ma era un po’ che lui aveva cominciato a camminare più svelto, come se stesse seguendo dei pensieri che lo portavano lontano;  lei lo seguiva con passo più lento, sperando di conciliare il sonno del bambino, e lo guardava.
Guardava il suo corpo che si muoveva sciolto. Non aveva un oncia di grasso in più, le sue natiche erano alte, piccole e rotonde; la pelle aveva un’abbronzatura calda, i riflessi della peluria bionda, che lo ricopriva tutto, la rendevano dorata. Era una persona sana, elastica, splendente…
Si doveva essere accorto che l’aveva distanziata, così si fermò, i piedi bagnati dalla risacca, e, girandosi, le sorrise.
Il mare era azzurro e l’aria tersa da mozzare il fiato. Non c’era nessuno sulla spiaggia.

Quando erano scesi, tra le dune, lui aveva guardato il mare spalancando le braccia, poi, rapidamente, si era sfilato i jeans ed il maglione e di corsa si era tuffato.
Lei l’aveva guardato meravigliata: indossava solo i mocassini, un paio di jeans,  un maglione ed era febbraio.
Poi aveva notato il suo corpo. Quel corpo tanto amato.
Quando era uscito dall’acqua aveva corso lungo la battigia fino a che era diventato un punto piccolino e lei si era accoccolata sulla sabbia, aveva deposto il bimbo addormentato nell’incavo delle ginocchia e, col volto verso il sole, aveva chiuso gli occhi, sperando di dimenticare.
L’aveva ripescata dal dolore la sua voce, di fianco: e aveva riso tirandola sù.
Si erano incamminati e dopo un po’ lui l’aveva nuovamente distanziata.

La sera prima  era girata la voce che sarebbe arrivato, allora tutti si erano dati da fare per organizzare un asado nella casa sul mare.
La mattina, quando aveva raggiunto il gruppo, c’era già parecchia gente. Lo spirito  era tra la festa paesana e quella carbonara. Tutti avevano preparato qualcosa. Lei aveva preparato torte di verdura. Aveva messo le sue torte sul tavolone della cucina, insieme a frittate e pezzi di formaggio. Gli uomini erano fuori,  cuocevano la carne all’aperto sotto i pini, bevendo vino rosso. Nonostante fosse una festa, la gente si scambiava frasi brevi, sottovoce. L’istinto faceva dire solo lo stretto indispensabile e solo a chi ti era vicino.
C’erano un mare, una penisola ed un oceano tra loro, eppure continuavano a parlare sottovoce. Il terrore rimaneva.
Lui era rientrato dal parco. Navigava tra saluti ed abbracci.
Dopo essersi scambiati i primi saluti quasi euforici, gli sguardi faticavano a fermarsi in quelli degli altri. Poche parole, tanti sorrisi imbarazzati: c’era ritegno nel dire agli altri, paura di sapere, uno sguardo poteva rompere gli argini.
Così tutti erano stati contenti di entrare a mangiare. La cucina era buia, il tavolo era grande, si erano seduti tutti intorno.
Lei aveva sempre il bambino in braccio, così si era seduta in un angolo, il piatto sul bordo del tavolo, staccava piccoli pezzi di torta e li metteva in bocca al bimbo che, tra le sue braccia, giocava con le collane.

Ad un tratto lui le si sedette vicino e disse " dammelo così mangi anche tu ". Non glielo diede, ma si alzò ed uscì, salì le scale ed entrò nel salone. Anche lì le persiane delle portefinestre erano accostate, i mobili si indovinavano appena, ma tanto, sia lei che lui, che l’aveva seguita, li conoscevano a memoria. 
Incominciarono a camminare avanti ed indietro, fianco a fianco, in silenzio.
Il bimbo ronronava mentre si addormentava e tra loro c’era sospeso un silenzio, un arco di silenzio, che era durato anni, ma che non aveva mai spento il loro muto cercarsi.
Camminavano nell’ombra e si sentivano, come se si accarezzassero. C’era languore  nelle membra, nello stomaco; c’era un’infinita tenerezza.
Dopo un po’ la voce di lui disse, come se non avesse mai interrotto il discorso "mi vergogno, ma son dovuto tornare in Italia, debbo riposare un po’.  Speravo di mimetizzarmi e di poter riprendere fiato, invece è stato peggio che essere in vetrina, mi basta  una semplice occhiata per farmi star male. Non ti dico il clima in facoltà. Sono andato a parlare con una mia ex-compagna di corso, lei ha il padre ingegnere, colonnello nel Genio, speravo mi desse una dritta per riuscire a lavorare in pace. Invece mi ha detto che anche i suoi fratelli hanno dovuto andarsene, uno è a Copenhagen e l’altro non ricordo dove in Messico. Quando ho chiesto che ne pensavano lei e l’augusto genitore, di questa caccia alle streghe, lei mi ha risposto : ”papà dice che por algo serà”, e poi ha cambiato argomento ".
"tu come stai ora?" l’interruppe lei mettendogli una mano sul braccio e fu come se partisse un grande abbraccio.
Non smisero di camminare, lei rimise subito la mano sotto il sederino del bimbo, ma furono come racchiusi in un bozzolo pieno di carezze, di baci. C’era un calore che correva nelle viscere e sulla pelle, così forte che fu quasi insopportabile, lui si avvicinò ad una portafinestra, la aprì, aprì le persiane e fatto un passo sul terrazzo si voltò e disse "sembra bello, andiamo sulla spiaggia" .
Si zittirono guardando il pavimento, udivano le voci degli altri nella cucina,
 " da soli" aggiunse lui.
Uscirono, attraversarono la costiera e s’inoltrarono tra le dune.

Ora lei lo guardava camminare davanti: era perfetto; non voleva saper cosa gli avevano fatto, non vedeva il suo ventre.
Era lì, era vivo.
Quando lui si fermò ad aspettarla, lei tenne gli occhi fissi sul suo volto. Aveva sempre avuto gli occhi azzurri, color dell’acquamarina. Si possono incupire gli occhi azzurri?

L’aveva appena raggiunto,avrebbe voluto baciarlo, ma una voce li richiamò dalle dune. Tornarono sui loro passi e, mentre lui si rinfilava i jeans, lei lo precedette ed arrampicandosi su di una duna, si trovò davanti dei piedi. Alzò gli occhi lentamente, per non perdere l’equilibrio, e scorse una mano tesa ad aiutarla. I suoi occhi continuarono a salire fino a che incontrarono quelli di Felipe.

E seppe che lui era perso. Erano gli occhi del basilisco.

Non l’ha più rivisto. La casa è stata venduta.

Sono passati trentanni e le madri locas di Plaza de Mayo, sono diventate las avuelas che duran a perseguir…..

Con todo my amor para no olvidarte.


sabato 21 settembre 2013

girano le stelle nella notte ed io...



Notte di luna piena, 
notte insonne.

Sarà per il caffè serale, per la luna, sarà per aver ascoltato il discorso (per fortuna solo in parte!) del delirante.

Mentre lo ascoltavo cercando di non incavolarmi troppo, mi è venuto in mente un servizio fatto diversi lustri fa in Croce.
Rientravamo da un servizio stanchi e provati nello spirito, i nostri vent’anni sentivano l’esigenza di riprendersi; quando l’autista, guardando nello specchietto retrovisore, ha visto che ci seguiva una Ferrari e ce l’ha comunicato. Improvvisa si è accesa nella testa di tutta la squadra una lampadina: fermiamolo, carichiamo lui e gli prendiamo le chiavi della Ferrari, poi lo portiamo al Paolo Pini (manicomio milanese) e diciamo che dà in escandescenze perché è affetto da manie di grandezza, prima che gli credano facciamo a tempo a farci una nottata brava con la Ferrari! Un mare di risate ed il groppo in gola se n’era andato.

Perché in questi anni nessuno ha mai pensato di fare lo stesso scherzo al nano?
Come quando se la tira dicendo: “cercano di eliminarmi per via giustiziaria”. Come mai, in 20 anni, nessuno l’ha eliminato semplicemente per via?

Ma, forse tutti quegli italiani che lui reputa solo dei coglioni sono più saggi di quanto si creda.

Ecco, la mia serata si è imbastardita così, i disagi si sono sommati ed hanno scacciato totalmente il sonno.

Così la testa cerca rifugio nei ricordi belli e tornano in mente il cielo stellato sul mare, l’aria salmastra e le parole di una vecchia canzone:

Girano le stelle nella notte ed io
Ti penso forte forte e forte ti vorrei …
Non conosco la ragione che mi spiegherà…
E se il cuore batte forte non si fermerà …
C’è una luce che m’invade ed io non posso più dormire
Mi sconvolge l’emozione e non so perché …
Scoppia nella notte il sentimento mio
Ti sento forte forte e forte ti vorrei



mercoledì 11 settembre 2013

nell'orto



Molto, molto difficile riprendere in mano un discorso che è scivolato via come la sabbia tra le dita.
E’ un giorno di  dolore, di ricorrenze infauste, che vorrei avessero insegnato il valore di una vita dignitosa, secondo i valori di base e non quelli di mercato o della sopraffazione. Avrei tanto voluto che quelle morti fossero riscattate dall’insegnamento che il mondo poteva trarne. Invece sono state usate per portare avanti un discorso di sopraffazione, di interessi, tanto da svuotarle di senso.
Così ricomincio dal piccolo privato di un piccolo essere. Vorrei parlare del mio periodo “out”, della fatica di non perdere i contatti con una realtà che non capisco più, che non condivido, vorrei parlare della speranza di non svegliarmi più, del senso di disperazione che mi accompagna da lunghi mesi e di quel sottile filo che mi tiene ancora legata alla vita. Vorrei parlare di questo andare come i gamberi, un po’ avanti, un po’ indietro, così-così di lato, nell’attesa di un risveglio generale, che torni a dare un senso al vivere.
Durante le giornate in cui vado di lato, cerco di fare delle cose che mi leghino alla terra, alla natura. Non riesco ancora a fare le lunghe passeggiate che mi rimettevano in pace col mondo, sto nell’orto. Il mio orticello sinergico con le aiuole alte di vitalba intrecciata, dove verdure e fiori si confondono.  Accarezzo le aromatiche per avere in cambio un po’ del loro meraviglioso profumo. E contemplo le foglie una per una.
Quest’anno ho condiviso l’orto con vari animali: di una proda di insalata abbiamo fatto a metà un giovane capriolo ed io. Aveva una predilezione per la gentilina; entrava nell’orto dalla parte del bosco, mangiava e quando se ne andava, bramiva. Non ho capito se chiamasse anche gli altri alla mensa o se mi ringraziasse. Che era giovane sono sicura perché il suo era un bramito gentile e quasi sommesso, non come quello osceno dei maschi quando cercano la femmina.
Poi ho giocato a nascondino con un esercito di lumache di tutte le dimensioni.  Con loro il gioco finiva con un bel lancio nell’erba al di là della siepe di “spini” ed era stancante solo per il numero di lanci. Invece con i grilli talpa, con le nottue e con i ramarri è stata un’avventura, che spesso finiva male per loro, perché Cocca la mia cagnolina-ombra, li seccava, convinta di farmi un favore.
Per fortuna che, nonostante volesse a tutti i costi compiacermi, non ha mai superato lo schifo di addentare un rospo, così Clodoveo ha avuto il tempo di prolificare. Mi sto ancora domandando dove, perché quando eravamo in Liguria, vedevo galleggiare nel torrente i tubicini trasparenti con dentro le uova, ma qui il torrente è proprio un torrente, va in secca con la stagione calda. Per cui dove avrà messo i suoi tubicini?
Non ho mai visto tante farfalle come quest’anno, ce n’erano parecchie di vari colori, ma centinaia bianche. In certi momenti a guardare il campo davanti a casa era tutto un tremolìo di ali bianche. Chissà come mai? Anche l’orto era pieno di ali, oltre a loro c’erano un sacco di aleurodidi voracissime, di altiche, di dorifere, maggiolini e cetonie. Una grande ansia da parte mia nel cercare di distinguerle dalle ausiliarie e benedette coccinelle e crisope. Poi:  lavare via gli insetti dannosi, ucciderli o rispettarli in quanto parte di un sistema che è anche il mio?
Intervenire in Syria o no? Perché non rispettare anche nelle peggiori espressioni la loro individualità, i loro tempi di maturazione? Noi non siamo diventati democratici in tempi brevi. E poi quanto è civile questo nostro essere? Non usiamo più il sarin o la pirite, ma continuiamo a produrli per poterne trarre profitto. Dov’è la differenza?
Ora che ci sono già alcune aiuole invernali coi vari tipi di cavoli, passo il tempo il tempo a controllare le foglie una per una, lavare via le uova della cavolaia e raccogliere i bruchi della stessa.
Ogni tanto mi fa compagnia un biacco bellissimo. Ci incontriamo sempre per caso. L’altro giorno un suo giovane discendente, che aveva solo la testa colorata e due grandi occhioni, è entrato in casa. Per fortuna la mia amica, che l’ha trovato scopando il portico, non si è spaventata, così l’abbiamo messo dentro ad un barattolo per vederlo bene e poi, visto che già abbiamo un rappresentante della specie nell’orto, siamo andati a liberarlo vicino al fiume di fondo valle. Il terreno lì è abbastanza coperto dagli alberi per permettergli di sopravvivere ai rapaci.
Dopo un inverno di cornacchie (che io chiamo Totò, perché ci assomigliano proprio!) quest’estate è stata la volta di una coppia di rapaci che ha addestrato al volo e alla caccia il suo piccolo. Proprio sopra le nostre teste.

Difatti è parecchio che fra il biacco ed i rapaci, non vediamo topolini. L’ultimo è stato il topolino dal dorso rosso.  Ma questo è un altro discorso.