giovedì 12 agosto 2010

La sindrome di Salieri




Capire la vita o viverla?

L’arco di due incontri è bastato a ripropormi il problema e a donarmi attimi di autentico stupore. Stupore inteso come godimento della vita.

Ci sono tante cose che non so fare: alcune non mi interessano e mi scivolano accanto senza tentazioni né attenzione, altre mi hanno interessato e mi ci sono cimentata, anche se con grossi limiti, ricavandone un senso di soddisfazione. Altre ancora mi hanno sempre affascinato per il contrasto tra la mia più totale incapacità di gestirle e le infinite capacità di viverle di altri.

E proprio per questa ragione queste ultime hanno sviluppato in me un’ipersensibilità, una reattività quasi eccessiva, alla contraffazione e, allo stesso tempo, una capacità di stupire e di godere delle capacità di altri.

La poesia e la musica sono due di questi campi.

Per anni sono andata a sentire poeti, ho letto poesie e mi sono odiata per la mia incapacità di provare sensazioni piacevoli laddove tutti gli altri dichiaravano di sentirle.

Per anni ho guardato vecchie lumache arrotolate su sé stesse, arrotare sgradevolmente parole in contrasto col loro essere.
Dovevo forzarmi a pensare a cercare di capire, spesso approdando al nulla.
Per anni mi sono domandata se l’unico valore di certi artisti era stato creato dall’invidia degli altri nell’immaginarli rompere i tabù del momento.

Considerazioni molto lontane dal senso della poesia.

Che pur consolandomi, nello sminuire il cosiddetto valore, non alzava certo la stima che avevo di me. Anzi, nella coscienza di un atto di incapacità, la abbassava al massimo.

Poi sette anni fa, con la celebrazione, come pedaggio dovuto, di una serata estiva di poesia, ho creduto di riconciliarmi con me stessa nei confronti della poesia .
Tranne qualche rara eccezione, nessun poeta sacro, nessun ermetismo, ma tante persone che di una vita comune sapevano cogliere l’attimo magico e porgertelo.
Nessuna fatica di comprensione: la gioia di ricevere un garbato sorriso in parole.

L’altra sera, no.
L’avvento sulla scena di una poetessa, mi ha sconcertata.
Oddio, il berlusconismo è arrivato sino a qui!

Ho osservato perplessa e vetriolesca, l’entrata di una bella donna sul palco, e quella che credevo la sua sicumera data da un paio di generazioni di potere del soldo e forse una di potere della mente.

La fronte non alta, resa bassa dalla spartizione centrale di un capello falsamente incolto. L’abito lungo falsamente virginale, mollemente adagiato su di un corpo, nel quale un filo di cellulite incomincia a sfuggire a week end in beauty farms, palesava che, sotto quell’apparenza di ragazza navigata, c’era una donna.

Il sottofondo musicale jazzistico e l’incoerenza di parole astutamente scelte nel dizionario del “mo’ vi stupisco con la mia erudizione!” mi hanno cullato in un disimpegno emozionale.

Dapprima mi sono soffermata su particolari donneschi, credo solo per contrastare l’impatto sessualmente accattivante del soggetto:
Assomiglia alla Marcegaglia. Però buona la scelta del sandalo piatto, il vestito cade fra i piedi in un modo semplicemente antico pieno del fascino della storia femminile. Certo c’è una bella differenza con il piglio da padrona o da figa di legno di certi tacchi a spillo!

Ardita la scelta del tessuto e del colore. Bianco, tessuto mollemente adagiato sul corpo. Non è certo fatto per nascondere imperfezioni. Buona la scelta dell’assoluta mancanza di orpelli. Toh, proprio questa semplicità toglie peso ai difetti e li trasforma in pregi dell’eterno femminino. Se ripenso all’accostamento di fiori di organza appuntati su abiti, dal tessuto e colori irrigiditi da falsi significati, che alcune donne sono riuscite ad infilarsi con inamidata ostentazione.
Eh, che abisso!

Ogni tanto tento di ritornare alle parole.
La poetessa (?) le porge con forza accompagnandole con una gestualità plateale.

Seguo i suoi passi avanti ed indietro:
ogni tanto si porge, ogni tanto si ritrae, come il mare, mai di lato.

Seguo le mani: ha atteggiamenti drammatici. Ma non sono scontati.
Le osservo meglio e finalmente capisco che fanno: attua, non so quanto istintivamente e quanto abbia studi alle spalle, le tecniche più antiche per favorire l’energia, il prana.
Una volta capito è facile seguire i suoi gesti: non è melò,
è in contatto con l’universo.

Le parole continuano ad avere un senso oscuro, per fortuna il suono del sax, del basso, del piano e non ultimo della batteria le tengono agganciate al presente, perché le “sue” emozioni mi rimangono lontane, oscure.

Poi la sonorità ed il ritmo incominciano a prendermi.
Senso, senso dammi un senso perché possa seguirti!
Non c’è; sono elucubrazioni tese a creare un sofisma, una masturbazione mentale!

Cerco tra i chiari e gli scuri evocati, tra l’incalzare delle parole,
il fiato sospeso,
un gran senso di appagamento nella ricchezza del tutto.

Poi il silenzio. I battimani, gli inchini da diva.

Ecco ho scoperto cos’è una “diva”.

Una sua esibizione è un’antica operazione di marketing. Ho capito perché, in epoche diverse, quando queste operazioni non erano inflazionate da ciarpame mediatico, alcuni potevano perdere la testa e la fortuna nel tentativo di catturare un semplice atto di attenzione di una “diva”.

Frastornata ed incantata,
come mi ritrovo quando all’improvviso cessa il vento tra gli alberi,
nel foyer ho dato sfogo alla mia sindrome di Salieri e
ho risposto tout court,
con immane stronzaggine,
a chi mi domandava che ne pensavo:
Una notevole presenza scenica!

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